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LA CASA SENZA TETTO
CAPITOLO 1
Un terremoto d’intensità 8 sulla scala Mercalli scosse
gran parte delle Sicilia sud orientale alle due di notte. Il suo
epicentro era localizzato a trenta chilometri dalla costa. Gli
abitanti di Nicati uscirono da casa e si riversarono sulle strade
terrorizzati.
Sal si svegliò mentre il letto si spostava verso il centro
della stanza. Il rumore della lampada del comodino che esplodeva
cadendo a terra con gran fracasso gli fece rizzare i capelli,
i vetri della finestra tremavano ancora nel buio minaccioso. Si
alzò tremando e cercò l’interruttore vicino
alla porta. Il buio si fece più terrificante, la corrente
elettrica era interrotta. Suo padre arrivò con una coperta,
trascinò moglie e figlio all’aperto e li avvolse
in essa per proteggerli dai rigori della notte invernale. Era
poi tornato frettolosamente a casa per prendere qualche indumento,
mentre tutti i vicini vociferavano animatamente invocando il perdono
di Dio, che aveva voluto avvertirli. Succedeva almeno una volta
l’anno e questo dava l’opportunità di ricorrere
alle preghiere e ravvivare la religione che andava scomparendo.
Un terremoto è terribile, soprattutto di notte, e fa sorgere
dal più profondo del subcosciente la paura dell’ignoto,
un timore sacro che risveglia la parte più spirituale del
nostro essere di credenti. In pochi sapevano l’origine,
la gente comune, infatti, non sospettava che fosse dovuto alla
pressione delle placche tettoniche o la deriva dei continenti.
La reazione generale era di panico e di invocazione del perdono
per i peccati reali o immaginari che avevano causato l’intervento
supremo. Qualcuno pensava che venisse dalle viscere dell’Etna,
che avrebbe sputato tra breve fiamme e ceneri in un’eruzione
spaventosa.
La notte era fredda e il vento non rendeva facile la permanenza
all’aperto, che in quei casi è necessaria perché
le scosse di assestamento avrebbero continuato ad alimentare l’anelito
religioso e la richiesta del perdono. Raccolti al centro della
strada, lontano dai muri delle case, c’erano gruppetti
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di persone. I ragazzi non osavano staccarsi dalle
gonne delle mamme.
Passato il primo momento di panico, dopo aver verificato l’integrità
delle pareti esterne delle case (avevano passato agevolmente il
test della scossa grazie allo spessore delle pareti ed al fatto
che erano attaccate le une alle altre), i più coraggiosi,
o quelli che non riuscirono più a sopportare il freddo,
cominciarono a rientrare.
Anche Sal e i suoi genitori rientrarono dubbiosi a casa. Il padre
accese un lume a petrolio e osservò attentamente le travi
e le canne che sorreggevano le tegole, sperando che fossero rimaste
al loro posto. Un po’ di intonaco era caduto sul pavimento
e si era sbriciolato lasciando una polvere bianca. Il primo acquazzone
avrebbe svelato l’integrità del tetto.
Sal aveva paura di tornarsene a letto da solo e al buio, ma voleva
mostrare che era ormai grande e poi era anche il capo della “banda
della campana”. Per evitare il contatto con l’aria,
che gli era sembrata viva e misteriosa, si raggomitolò
sotto le coperte sperando di addormentarsi subito. Quando il terremoto
lo aveva svegliato, aveva avuto l’impressione che una corrente
di aria fredda avesse attraversato la casa, come il fruscio che
fa un fantasma. Addio al sonno! Non riusciva proprio a chiudere
occhio e a niente valsero gli scongiuri e le preghiere che mormorava
a bassa voce. Il padre dovette sentirlo oppure immaginò
la sacrosanta paura che l’avvenimento aveva suscitato in
lui. Si alzò e lo chiamò a bassa voce per invitarlo
a passare l’ultimo tratto della notte nel letto matrimoniale.
Protetto dai corpi caldi e rassicuranti ai suoi lati, poté
finalmente abbandonarsi al sonno e agli incubi che coronarono
la notte movimentata.
Il giorno dopo, la scuola restò chiusa per permettere un’ispezione
approfondita dei danni. In alcune case, quelle più vecchie
e agli angoli delle strade, erano state riscontrate delle ampie
fessure e i balconi e il tetto erano pericolanti.
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Il padre non si oppose quando Sal gli chiese
di andare in campagna a giocare con i suoi coetanei; se ci fossero
state delle scosse di assestamento la campagna sarebbe stata certamente
il luogo più sicuro.
Liberatosi dalla paura di rimanere prigioniero sotto le macerie,
Sal si recò da solo sul ponte oltre il campo sportivo,
per verificare se aveva resistito a quella terribile scossa. Non
era lontano e conosceva molto bene le campagne attorno. Tutto
gli sembrò solido come prima. Più in alto, dove
la strada faceva una curva ad angolo retto, c’era una grotta
che lo aveva sempre affascinato, l’aveva esplorata numerose
volte e vi si nascondeva durante i giochi con i compagni della
banda. Tutte le volte che vi passava vicino la esplorava, sperando
di trovare un tesoro. Si avanzò indeciso verso l’apertura
nera, sbirciò varie volte all’interno, fino ad abituarsi
all’oscurità, poi, assicuratosi che la volta era
di roccia solida, entrò curvandosi, l’arco dell’entrata
era basso. La roccia del pavimento era in leggera discesa, poi
sprofondava un paio di metri e la grotta si allargava. Il terriccio
di sinistra aveva perso il colore verde del muschio causato dall’umidità,
era stato rimosso dal terremoto e presentava il colore giallino
della ghiaia appena smossa.
Sal vi si avvicinò e si accorse che la frana veniva da
una cavità o cunicolo che era stato scavato nella roccia
e poi riempito della stessa pietra sbriciolata. Vicino alla parete
gli sembrò di scorgere un oggetto metallico. Pensò
subito ad una bomba e a tutti gli avvertimenti che i ragazzi avevano
ricevuto dai grandi. Non bisognava toccare quelle cose sconosciute
perché avrebbero potuto esplodere. La curiosità
vinse la paura e con cautela si mise a scavare attorno a quello
che sembrava un piccolo tubo. La sorpresa fu grande quando invece
di una bomba si accorse che quella era una pistola. La prese tra
le mani e la osservò con attenta curiosità all’apertura
della grotta dove c’era più luce. Il
tamburo aveva sei buchi riempiti di sabbia
e non
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girava facilmente, la canna era un po’
arrugginita, il grilletto anche. Il calcio era in legno decorato
con una lamina di acciaio per lato. Prese una mira immaginaria
e poi premette il grilletto che non riuscì a far scattare.
- Bum! mormorò e decise di portarla al padre. La nascose
sotto il pullover di lana e si diresse verso casa. Prima di arrivare
però cambiò idea. Perché non pulirla e rimetterla
a posto per sfidare i membri della sua banda ad un tiro a segno?
Avevano già archi e frecce rudimentali, ma quella era una
vera arma e il possederla avrebbe aumentato la stima che gli altri
avevano di lui. L’idea gli sembrò buona, tanto più
che suo zio Gaetano era un appassionato cacciatore e sarebbe stato
contento di mostrargli la tecnica per pulire le armi. Non voleva,
però, confessargli di possedere una pistola, lo avrebbe
convinto con la scusa che aveva scoperto una nuova passione per
la caccia e voleva imparare da un “grande cacciatore”
i segreti.
Arrivò a casa, sgattaiolò nell’ultima stanza,
dove c’era il solaio, senza far notare alla madre il gonfiore
nel maglione e nascose la pistola sotto uno scatolone dopo averla
avvolta in uno straccio. Si alzò contento di scatto e sbatté
la testa contro una trave del tetto. Dopo aver srotolato come
un rosario un’invettiva di parolacce contro quello stupido
solaio così vicino al soffitto, si accinse a scendere.
“E i proiettili?” Il colpo gli aveva fatto venire
in mente che una pistola è un giocattolo inutile senza
i proiettili. Scese toccandosi la testa, si avvicinò al
secchio d’acqua del pozzo e se ne versò un poco per
cercare di attutire il dolore e il bernoccolo che si era procurato.
Uscì di corsa e si diresse di nuovo verso la grotta. Se
la pistola era stata nascosta in quel posto era probabile che
ci fossero anche i proiettili.
Arrivò affannato all’ingresso. Fece attenzione a
non sbattere di nuovo la testa e si sedette vicino alla ghiaia.
Quando si fu abituato all’oscurità cercò di
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trovare i proiettili, che sperava fossero stati
nascosti vicino alla pistola.
Dopo una mezz’ora aveva spostato una grande quantità
di ghiaia ma non aveva trovato niente. Aveva le mani fredde e
indolenzite e voleva abbandonare l’impresa. Uscì
all’aperto, salì sul terreno sopra la grotta dove
c’erano alcuni alberi di ulivo e degli sterpi vicino ai
tronchi. Il contadino li aveva potato e ammonticchiato i rami
superflui per raccoglierli più tardi. Prese quello più
grosso e ritornò dentro la grotta. Con quello poteva anche
scavare nella parete da dove la massa di terriccio si era staccata.
Il rumore di un motore che si fermava all’imboccatura della
grotta lo fece ammutolire. Si rannicchiò dentro la nuova
incavatura e si sporse per vedere se il visitatore inopportuno
procedeva oltre. Invece quello aveva spento il motore e il silenzio
aveva riempito lo spazio divenuto improvvisamente soffocante della
grotta. Vide il profilo di un uomo invadere l’apertura e
ferire la luce che filtrava attraverso. Appiattito sulla superficie
umida cercò di indovinare i movimenti del nuovo arrivato.
Non riusciva più a vederlo. Un dubbio lo assalì:
forse era colui che aveva nascosto la pistola e adesso veniva
a riprendersela. Sentì i suoi passi sui ciottoli del pavimento.
- Questo non è il luogo ideale, la voce di una donna aveva
sconvolto il percorso dei suoi pensieri.
- Vieni, qui non c’è nessuno, aveva esortato l’uomo.
- Siamo troppo vicini al paese e qualcuno potrebbe vederci. Aveva
continuato la donna rifiutandosi di entrare.
Sal cominciò a capire l’intenzione dei due visitatori.
- Mi riprendo la bicicletta e me ne torno in paese, aveva aggiunto
in tono definitivo la donna.
Poco dopo lo scoppiettare del motore indicò la partenza
dell’intruso. Sal si affrettò ad uscire da quella
grotta-trappola e si accorse che un furgoncino azzurro a tre ruote
stava attraversando il ponte.
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Tirò un sospiro di sollievo e ritornò
a scavare la parete. Dopo alcuni minuti notò un pezzo di
carta catramata sporgere dal terriccio. Col cuore che gli batteva
veloce, continuò a scavare attorno evitando di danneggiare
l’involucro. Trovò una piccola scatola di legno ben
conservata perché protetta dalla carta impermeabile. Si
affrettò ad aprirla e dentro vi trovò dodici proiettili
ben avvolti in un fazzoletto di cotone imbevuto di grasso. Richiuse
la scatola con l’euforia di chi ha scoperto un prezioso
artefatto e concluse la sua impresa nascondendo il bottino nel
solaio. L’avrebbe pulita, poi l’avrebbe mostrata ai
suoi compagni e nascosta nel loro rifugio segreto. Non poteva
tenerla in casa per molto tempo, temeva che il padre se ne accorgesse
prima o poi. Nel solaio c’erano corde, scatole di giornali
e riviste, arnesi di lavoro che usava di rado, fili di ferro arrugginiti
e tutte le cose che la madre non gli permetteva di tenere in giro.
Non ci andava spesso ma ogni tanto cercava qualche cosa e rovistava
dappertutto.
I giorni che seguirono furono caratterizzati da una febbrile attività
di pulitura e grassaggio che resero l’arma come nuova. Il
tamburo girava con un rumore appena percettibile, l’impugnatura
fu strofinata con la lacca che il padre usava per i mobili, la
canna acquistò la lucentezza dell’acciaio. Lo zio
Gaetano rimase soddisfatto della rapidità con cui il nipote
aveva appreso i segreti della pulizia del fucile; aveva dovuto
superare però il primo momento di sorpresa alla domanda
inconsueta del nipote.
Fu così che il revolver fu presentato ai membri della banda
in un rito che si svolse sotto la campana della cava Altieri e
consegnato a Giovanna d’Arco, che la nascose nel fumaiolo
del forno di una casa abbandonata che era stata scelta come covo
della banda. Tutti giurarono di non parlarne con nessuno pena
l’espulsione dalla banda.
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